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MILANO, 10 gennaio 2019 – (di Elena Percivaldi) Tracce di lapislazzuli nel tartaro dentale: un piccolo frammento della pietra preziosa, da cui si estrae il celeberrimo pigmento blu, è stato rinvenuto nella dentatura di una monaca vissuta in un convento tedesco tra l’XI e il XII secolo, suggerendo che già in quell’epoca le donne, nei contesti religiosi, partecipassero in prima persona alla realizzazione di codici manoscritti miniati più ampiamente di quanto non si creda. La bellissima e interessante scoperta è stata fatta da un’équipe internazionale di studiosi di varie Università (tra cui York, Harvard, Ohio State, Idaho State, Oklahoma, British Columbia, Otago e la Sapienza di Roma) e istituzioni come il Max Planck Institute, il Natural History Museum of Denmark, l’Institute of Evolutionary Medicine di Zurigo. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul numero di gennaio 2019 di Science Advances, aprendo nuove prospettive di indagine non solo sulla diffusione del lapislazzuli nell’Europa medievale (importato come noto dall’Afghanistan e solitamente riservato a codici di particolare valore), ma soprattutto sull’effettivo ruolo delle donne nella produzione di manoscritti, generalmente considerata prerogativa per lo più maschile.
Le tracce di lapislazzuli erano contenute nel tartaro dentale di una donna di età compresa tra i 45 e i 60 anni circa sepolta nel cimitero del convento di Dalheim nei pressi di Lichtenau, in Germania. Lo studio del reperto è iniziato nel 2014 e sulle prime non ha rivelato risultati particolarmente interessanti. In base al C-14, i resti (conservati presso l’Istituto di Medicina Evolutiva dell’Università di Zurigo) sono databili con il 95% di probabilità al periodo compreso tra il 997 e il 1162, ma non presentavano particolari indizi di patologie, traumi o infezioni subìte in vita. Le analisi osteologiche non hanno evidenziato tracce di usura, indizio che la donna viveva una vita abbastanza agiata e non era sottoposta ad attività fisica intensa. L’analisi dei denti, invece, ha mostrato la presenza di tartaro e la perdita ante mortem di due molari, probabilmente causata dalla carie. E’ probabile che il lapislazzuli sia finito nel dente a causa dell’abitudine, diffusa presso gli amanuensi, di inumidire la penna o il pennello con la lingua per “pulirne” il tratto: un gesto talvolta involontario, ma che poteva provocare alla lunga addirittura l’avvelenamento (come nel caso, ampiamente attestato, dei monaci di Øm, in Danimarca, di cui parlo nel libro “La vita segreta del Medioevo”).

Sul complesso monastico, ora in rovina ma scavato per iniziativa del Museo Archeologico della Westfalia tra il 1988 e il 1991, la documentazione storica è piuttosto scarsa soprattutto per quanto concerne la fase più antica (i primi atti superstiti risalgono infatti al 1244). La data di fondazione è tuttora ignota, mentre è noto che non lontano da Dalheim esistevano altri conventi femminili benedettini e cistercensi fondati nel 1127, 1140, 1142 e 1149. Sul sito è documentata la presenza di una chiesa dedicata a San Pietro, probabilmente eretta nel IX secolo e in seguito allargata, e che nel Duecento era presente una casa canonica. Secondo gli studi condotti sui documenti, si suppone che il convento ospitasse una comunità di circa 14 monache fino alla sua distruzione avvenuta, a causa di un incendio, nel XIV secolo. Il cimitero che ospitava i resti della monaca si trova nel terreno adiacente la chiesa di San Pietro.

Nel Medioevo – si legge nell’articolo pubblicato su Science Advances – l’impiego del pigmento blu ricavato dal lapislazzuli era riservato, a causa dell’alto costo, solo nelle miniature destinate a ornare i libri di lusso, ed era pertanto disponibile solo per gli scribi e i miniatori di comprovate, quando non eccezionali, capacità artistiche. Prima del XV secolo, solo pochi miniatori avevano l’abitudine di “firmare” le proprie opere, il che ha solleva non pochi interrogativi a proposito della loro identità. Nei monasteri femminili, meno del 15% dei codici è attribuibile a mano femminile: una percentuale che scende a meno dell’1% se si considerano i volumi realizzati prima del XII secolo. La conclusione è finora sempre stata che a realizzare i volumi fossero normalmente i monaci di sesso maschile, rappresentando le donne un’eccezione. Recenti ricerche – si legge nel contributo – hanno però messo seriamente in discussione questa tesi, rivelando che le monache non solo non erano affatto illetterate, ma consumavano e producevano un gran numero di volumi. In Germania e in Austria, ad esempio, le monache ricoprivano un ruolo molto attivo nella produzione dei libri [basti del resto pensare a personalità del calibro di Ildegarda di Bingen e Roswitha di Gandersheim, per non fare che alcuni nomi molto noti, NDR], e si ha testimonianza di religiose scrivane e miniatrici sin dal tardo VIII secolo”. Anche se gli esempi più antichi del loro lavoro risultano invero “relativamente modesti”, la qualità aumenta progressivamente nel tempo fino a produrre nel XII secolo veri e propri capolavori. Nel monastero di Admont a Salisburgo, che ospitava una comunità maschile e una femminile, un gruppo di monache lavorò alla copiatura di oltre 200 codici, e Diemut, scriba donna attiva nel XII secolo nel convento femminile di Wessobrunn in Baviera, avrebbe prodotto oltre 40 codici tra i quali un Vangelo riccamente miniato. Tra il XIII e il XVI secolo, periodo in cui la documentazione si fa più ampia, si ha notizia di oltre 400 donne-scriba impiegate nella produzione di oltre 4000 libri; la presenza di scriptoria, inoltre, è documentata in 48 conventi femminili. Ciononostante, l’identificazione certa delle mani femminili nei codici miniati più antichi è estremamente difficoltosa sia a causa del limitato numero di volumi superstiti, che per la prassi ampiamente diffusa di non “firmare” le opere realizzate. Di conseguenza, le donne miniatrici, per quanto sicuramente esistenti e numerose, appaiono evanescenti nel panorama documentario del tempo, e così il loro lavoro non ha potuto sfortunatamente godere di alcun tipo di riconoscimento.
[Ringrazio il dott. Stefano Ricci (Laboratorio di Preistoria e Antropologia presso Universita degli studi di Siena dell’Università di Siena) per alcune utilissime precisazioni di carattere scientifico]
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