Ha aperto i battenti nella cittadina bellunese il nuovo Museo Archeologico. Tra i tanti reperti esposti nel percorso interattivo, l’ara votiva dell’enigmatica dea Anna Perenna e le lapidi di un giovane pretoriano “sepolto due volte”.
(foto: ©Marco Bergamaschi) – ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Mille anni di storia, dalla civiltà retica alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, rivivono a Feltre, la “Venezia dolomitica”, grazie al nuovo Museo Archeologico che ha aperto i battenti nell’elegante città della provincia bellunese. Una città, l’antica Feltria, che dopo aver ottenuto il rango di municipium in epoca romana, esercitava il controllo sulle vallate alpine tra Belluno e Trento, un territorio vastissimo, che ne faceva uno dei centri più rilevanti dell’alta terraferma veneta e le conferiva il ruolo di crocevia tra la montagna e la pianura padana.

Tra le tante testimonianze esposte, a richiamare l’attenzione sono in particolare le statue e gli ornamenti provenienti dalle dimore patrizie che punteggiavano il territorio tra il I secolo a.C. e il II d.C.: tra essi una testa di Satiro che rimanda ai culti dionisiaci, un bellissimo busto di efebo, copia romana del “Narciso” di Policleto, la monumentale statua di Esculapio in marmo greco (tornata alla luce nel 1974 durante gli scavi sul sagrato del Duomo), ad oggi la più imponente rappresentazione del dio della medicina dell’Italia centro-settentrionale.



Di grandissimo interesse è l’ara votiva dedicata all’enigmatica dea Anna Perenna, in onore della quale a Roma sorgeva un santuario scoperto di recente: dentro la sua cisterna erano state gettate lamine con maledizioni e figurine antropomorfe, probabili ex voto o tracce di un misterioso rituale apotropaico.
Curioso è anche il “doppio” monumento funebre dedicato a Lucius Oclatius Florentinus, pretoriano feltrino morto all’età di 24 anni, uno dei quali trovato a Feltre e l’altro a Roma all’imbocco della via Cassia. Un giovane uomo “sepolto due volte”, quindi: un unicum o quasi, il cui studio ha permesso di ricostruire le vicende del più ampio nucleo familiare noto della Feltria romana. Il percorso museale comprende diverse iscrizioni feltrine, corredi funebri, ornamenti, monete e suppellettili in terracotta, vetro soffiato e metallo, offrendo uno spaccato sul culto dei morti nel Veneto antico.
Ogni reperto è abbinato ad un QR code che permette di approfondirne la storia e il significato direttamente sullo smartphone; altri dispositivi multimediali accompagnano il visitatore, consentendo di esplorare le sale in maniera interattiva.
[L’articolo è tratto dal mensile BBC History Italia, n.136 (agosto 2022), disponibile in edicola e in formato digitale nello store online.]
INFORMAZIONI
Museo Archeologico di Feltre
Per informazioni: www.visitfeltre.info
Ecco alcuni “gioielli” del Museo di Feltre
L’enigmatica ara di Anna Perenna

L’interesse del reperto risiede nella estrema rarità di testimonianze epigrafiche relative a questa antica divinità italica, forse di origine etrusca, il cui carattere era poco chiaro già al principio dell’Impero.
La tradizione più comune, in particolare Ovidio (Fasti III, 543-654) la identifica con Anna, sorella di Didone, che, dopo la tragica morte di questa, si rifugiò a Malta, presso il re Batto, per sfuggire al fratello Pigmalione. Nuovamente costretta a prendere il mare, naufragò sulle coste del Lazio, dove, amorevolmente ospitata da Enea, suscitò la gelosia della moglie Lavinia. Didone le apparve in sogno e la esortò ad abbandonare la casa ospitale, e da allora si crede che il cornigero Numicio l’abbia rapita con le sue onde impetuose e l’abbia nascosta nei suoi antri.
Secondo un’altra versione Anna Perenna era una vecchia di animo buono che aiutò i plebei romani durante i tumulti del 494 a.C., rifocillandoli con focaccine preparate con la massima cura da lei. I romani, per riconoscenza, la omaggiarono edificandole una statua. Più probabilmente doveva essere ritenuta una personificazione femminile dell’anno e del suo perpetuo ritorno, tanto più che era anche chiamata Anna ac Perenna e che presso i romani vigeva l’augurio di: annare perannareque commode (passare un buon anno dall’inizio alla fine). Inizialmente rappresentava la divinità dell’abbondanza e del nutrimento e, a testimonianza di questo fatto, vale la radice sanscrita “ann” (“cibo”) che ha un corrispettivo romano in “annona” (“approvvigionamenti”, “derrate alimentari”). Continuando con la ricerca etimologica, una spiegazione la fa coincidere con amnis perennis, divinità delle acque, altri scorgono in lei una dea della terra dal nome etrusco. Un’ulteriore spiegazione fa risalire le sue origini nel sistema contadino e identifica la dea con un simbolo della natura e infatti la sua festa coincideva con l’inizio della primavera. Essa cadeva infatti il 15 marzo e la sua celebrazione prevedeva banchetti lungo la via Flaminia, all’interno del bosco sacro alla dea. Queste feste erano un’occasione per dare sfogo a grandi manifestazioni di allegria e di intrattenimento, come balli, canti osceni e ubriacature. Il bosco (lucus) sacro alla dea è stato identificato nella zona dei monti Parioli a Roma, dove nel 1999 durante gli scavi per un parcheggio sotterraneo, venne rinvenuta una fontana rettangolare con un’ara e iscrizioni murarie e una data: nimphis sacratis Annae Perennae, alle ninfe consacrate ad Anna Perenna, 156 d.C. All’interno della cisterna sono state trovate una ventina di piccole lamine in piombo con incise defixiones, ovvero formule magiche di maledizioni. Inoltre nove contenitori in piombo e una brocchetta di terracotta con coperchio in piombo contenenti figurine antropomorfe di materiale organico, spesso capovolte.
L’Ara votiva in pietra calcarea del Cansiglio, dedicata ad Anna Perenna e datata I sec. d.C., fu rinvenuta nel 1922 a sud del Duomo durante lo scavo per le fondazioni della Canonica su progetto dell’architetto Alberto Alpago-Novello. Il progettista, preoccupato per l’inserimento in un luogo così delicato dal punto di vista architettonico e monumentale di un fabbricato di nuova costruzione e per la conservazione dell’Oratorio dell’Annunziata, di fronte alla richiesta di esprimere un parere su un progetto fornito da un costruttore locale, fornì un suo disegno prestando la sua opera gratuitamente. L’ara votiva frammentata nella parte superiore destra, sul lato destro e in tutta la parte inferiore, all’estremità superiore presenta una modanatura aggettante. Al centro dell’ara, sotto la modanatura aggettante si legge la scritta in lettere capitali: ANNA(E) PERENNA(E) ovvero “Ad Anna Perenna”. Ad oggi fuori da Roma l’ara feltrina è l’unica testimonianza del culto della dea.
Il sorriso del giovane Satiro

L’enigmatico sorriso di un giovane satiro dallo sguardo luciferino accoglie il visitatore della sala n. 2, dedicata alla piccola scultura, trasportandolo nel mondo di Dioniso e del suo tumultuoso seguito composto da baccanti, fiere, sileni e, appunto, satiri.
La testa è lievemente inclinata e in torsione verso sinistra, presenta un naso camuso e orecchie con la tipica terminazione a punta, un viso ovale pieno, fronte ampia e liscia e capelli resi con ciocche corpose, trattenute da una benda che ricade in due lembi sulle spalle. La sormonta una ricca corona vegetale, solo in parte conservata. Gli occhi hanno un incavo, originariamente integrato in pasta vitrea colorata.
Una particolarità del manufatto è che la testa è priva della calotta cranica, realizzata separatamente già in antico, secondo una tecnica ampiamente attestata nella scultura romana. Nella parte inferiore termina con uno sperone tronco-conico, funzionale al suo inserimento in una statua. Il deciso movimento della testa fa pensare che la scultura originaria affiancasse al satiro un altro elemento, come un bambino, una pantera o un grappolo d’uva, che, collocato alla sua sinistra, ne attirasse l’attenzione, giustificando la torsione del capo.
L’esemplare feltrino si inserisce fra le immagini di satiri giovani e sorridenti, dall’aspetto umanizzato, in cui risultano notevolmente ridotti i tratti ferini tipici di questi esseri demoniaci, dalla natura intermedia tra quella umana e animale. Queste sculture, riprodotte in gran numero in epoca romana su modelli greci di età ellenistica, riscuotevano un notevole successo come elementi decorativi di edifici termali o giardini di ville e abitazioni di una certa agiatezza.
Il rinvenimento avvenne nel 1935 nel corso di uno scavo occasionale al raccordo tra via Mezzaterra e piazzetta Trento Trieste, presso i portici. La zona ricadeva pienamente nel contesto urbano di Feltria, città romana (municipium) collocata in posizione strategica nel comparto prealpino, e caratterizzata da una relativa floridezza economica.
Le indagini archeologiche di questi ultimi decenni vi hanno confermato la presenza di un’edilizia residenziale di buon livello. E a una bella domus urbana doveva appartenere la scultura del satiro feltrino, che decorava probabilmente lo spazio scoperto di un giardino, così come la fontanella marmorea rinvenuta nei pressi poco tempo prima esposta nella medesima sala. Riferibile a una committenza ricca e colta, quest’opera appare un prodotto di buona qualità, con caratteristiche tecnico-stilistiche che ne consentono la datazione nella seconda metà del I sec. d.C.
Fin dall’epoca del rinvenimento la testa di satiro fu giudicata “incerta se di epoca romana o posteriore”; prevalendo la seconda ipotesi, fu variamente attribuita al XVII o al XIX secolo.
In occasione dell’intervento di restauro, condotto nel 2006 con il finanziamento di banca Intesa Sanpaolo nell’ambito del progetto Restituzioni, è stato effettuato uno studio analitico che ne ha confermato la corretta collocazione storico-cronologica. L’analisi mineralogico-petrografica allora effettuata ha determinato la provenienza del marmo dalle cave di Luni.
La monumentale statua di Esculapio

Tra le icone del Museo civico c’è la monumentale Statua di Esculapio in marmo greco rinvenuta nel 1974, nell’area antistante al Duomo cittadino. Scoperta nella scarpata orientale del cantiere, per evitare il rischio di danni o di furto, venne asportata e ricoverata nel Museo civico.
Oltre alla figura si raccolsero numerosi frammenti di varie dimensioni, a cui si aggiunsero ulteriori reperti recuperati due anni più tardi, in occasione della ripresa dello scavo, e nel 1982 una testa di serpente, individuata tra materiali eterogenei nel Museo civico. Nel complesso si conservano oltre 200 frammenti della statua, che vanno dal blocco maggiore a numerosissime scaglie, di pochi centimetri di lato, ormai non più leggibili o collocabili all’interno della figura. Questo fatto indurrebbe ad ipotizzare un intenzionale intervento di frantumazione della scultura, fortunatamente non completato, forse per riciclarne il materiale o calcinarlo oppure con intenti iconoclasti.
L’Esculapio doveva essere collocato non molto distante dal luogo in cui venne alla luce, anche se non è possibile oggi definire con esattezza la sua collocazione originaria.
La statua è realizzata in marmo bianco greco, a cristalli medi traslucidi, e doveva avere in origine la considerevole altezza di 220-230 centimetri.
Il dio della medicina è rappresentato in piedi, col peso del corpo portato sulla gamba destra mentre la sinistra è leggermente flessa e il ginocchio avanzato. All’anca destra sporgente fa da contrappunto il sollevamento della spalla opposta, che produce una leggera torsione del busto. Il braccio sinistro è piegato e porta la mano sul relativo fianco; quello destro, ora mancante, scendeva invece lungo la figura, in direzione di un corto bastone a cui era avvolto il serpente, consueto attributo del dio, in parte ricostruibile dai frammenti superstiti.
Come di consueto, Esculapio veste l’himation, il tipico mantello greco indossato sopra la tunica o da solo, che avvolge interamente le gambe, risale lungo la schiena e ricade sulla spalla sinistra, lasciando scoperta buona parte del muscoloso torso. All’altezza dei fianchi il mantello si increspa in un rotolo di stoffa che disegna un arco di cerchio sul basso ventre e lascia in vista la regione inguinale; esso viene fermato, sull’anca sinistra, dalla mano del dio.
L’Esculapio di Feltre costituisce una replica del tipo statuario “Museo Nuovo”, noto in una quindicina di esemplari mai coincidenti fra loro, tutti databili in età imperiale. Il confronto con le sculture meglio conservate e i numerosi frammenti superstiti permettono di ricostruire con buona approssimazione anche le parti mancanti della figura che originariamente doveva essere policroma.
Dopo 41 anni dal suo rinvenimento nel 2015 la statua venne sottoposta a un lungo e minuzioso restauro nel laboratorio di Diego Malvestio a Concordia Sagittaria, con la direzione tecnico-scientifica della Soprintendenza Archeologia del Veneto, e finanziato da Unifarco con Art bonus. Dopo una prima esposizione nell’Oratorio della Santissima Annunziata, l’importante reperto è stato collocato nella nuova sezione archeologica del Museo civico.
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