STUDI / Scritta a Ravenna e recitata nel maggio 1226 davanti a Federico II: ecco la vera storia della più antica lirica italiana

In un volume edito da “Il Mulino”, Roberta Cella e Antonino Mastruzzo dell’Università di Pisa avanzano una nuova interpretazione della canzone anonima “Quando eu stava in le tu cathene”. Secondo gli autori, i versi sono legati a una precisa circostanza storica: il soggiorno di Federico II e della sua corte a Ravenna, tra l’aprile e…

Il verso della Pergamena 11518 ter dell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna-Cervia con il testo della canzone

Nell’aprile 1226  Federico II e la sua corte, partiti da Brindisi, sostarono a Ravenna, comune fedele all’impero, facendovi tappa lungo il viaggio che doveva portarli a Cremona per partecipare alla Dieta in cui di sarebbero discussi i dettagli della nuova crociata promessa dallo Stupor Mundi a papa Onorio III.  Nella città romagnola, però, l’imperatore fu bloccato dallo sbarramento messo in campo a Faenza dalle truppe della da poco rinnovata (2 marzo 1226) Lega Lombarda, intenzionate a impedirgli di proseguire. E proprio durante questa sosta forzata, che perdurò fino al 7 maggio, Federico II avrebbe ascoltato per la prima volta le parole – e verosimilmente anche la musica – della più antica lirica italiana a noi pervenuta: “Quando eu stava in le tu cathene”, una canzone composta da 50 versi divisi in cinque strofe più un ritornello, cantata e recitata al suo cospetto e poi trascritta su pergamena da un anonimo notabile ravennate. È questa la tesi formulata dalla storica della lingua Roberta Cella e dal paleografo Antonino Mastruzzo, entrambi professori dell’Università di Pisa, i quali nel loro studio congiunto, intitolato La più antica lirica italiana. “Quando eu stava in le tu cathene” (Ravenna 1226) e da poco pubblicato da Il Mulino, hanno rimesso in discussione la datazione del componimento, finora assegnata alla fine del XII-inizio XIII secolo, e chiarito le reali circostanze della sua composizione. Un attento lavoro investigativo, paleografico, filologico e storico-linguistico il loro, che ha permesso di ricollocare nel tempo e nello spazio i versi, scoperti quasi per caso nel 1938, rivoluzionando l’interpretazione definita, sullo scorcio del Novecento, da studiosi come Alfredo Stussi, Antonio Ciaralli e Armando Petrucci. E consolidando il primato di Ravenna come “culla” della lirica italiana.

La Pergamena 11518 ter conservata nell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna-Cervia: le parole della lirica sono scritte sul verso

Una “aggiunta” sul verso

La lirica in volgare fu vergata sul verso di una carta notarile: un atto rogato il 28 febbraio 1127 nel monastero femminile di Sant’Andrea di Ravenna dal notaio Albertus attestante la vendita, da parte del giudice Pietro Tusco, di una casa a pianterreno per nove libbre di denari lucchesi ai fratelli Opizo e Guglielmo. Con ogni probabilità si trattava di un’azione di “riciclo”: il vecchio contratto, evidentemente ritenuto obsoleto a quasi cent’anni di distanza, non serviva più e poiché la pergamena costava parecchio si pensò di riutilizzare il retro del supporto, ancora libero, per ospitare il “nuovo” testo della poesia.

Il documento è oggi conservato nel fondo Pergamene dell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna-Cervia, contrassegnato con il numero di inventario 11518ter. Ecco l’inizio della canzone:

Quando eu stava in le tu’ cathene,
oi Amore, me fisti demandare
s’eu volesse sufirir le pene
ou le tu’ rechiçe abandunare,
k’ènno grand’e de sperança plene.

Il retro della pergamena contiene per la verità anche il testo di una seconda canzone, “Fra tuti qui ke fece lu Creature”, di cui però si leggono solamente alcuni versi.

Il testo integrale di entrambi i componimenti si può trovare QUI.

Parole e musica

Le due poesie “ravennati” furono scoperte nel 1938 da Giovanni Muzzioli mentre studiava le carte del fondo di Sant’Andrea, ma il ritrovamento balzò agli onori delle cronache solo nel 1999, quando il filologo Alfredo Stussi lo pubblicò per la prima volta1 datandolo tra la fine del 1100 e gli inizi del Duecento. Seguì nel 2001 la presentazione durante una Giornata di studi sulla “Canzone d’amore” promossa dalla Società di Studi Ravennati; la conseguente pubblicazione degli Atti del convegno (Vol. XI/1 – 2004) ha dunque contribuito a restituire a Ravenna un ruolo di primissimo piano per quanto concerne le origini e la storia della letteratura italiana.

E non solo. Tra i due testi è presente anche una notazione musicale, che verosimilmente doveva “fissare” la melodia di accompagnamento alle parole cantate. Questo affascinante aspetto è stato discusso in un Seminario tenutosi nel 2004 nel Museo Civico «Ala Ponzone» di Cremona e poi approfondito nei relativi Atti pubblicati l’anno seguente – Tracce di una tradizione sommersa. I primi testi lirici italiani tra poesia e musica“, ed. SISMEL Il Galluzzo – a cura di Maria Sofia Lannutti e Massimiliano Locanto della Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia. La melodia, ricostruita, delle canzoni ravennati può essere ascoltata nel cd in allegato al volume, rara testimonianza della (in gran parte perduta) musica profana composta ed eseguita in Italia nel Medioevo.

Due importanti novità

Il saggio degli studiosi dell’Ateneo pisano giunge al termine delle acquisizioni svolte nell’ambito di un progetto di ricerca condotto con la collaborazione con il “FrameLAB – Multimedia & Digital Storytelling” del Dipartimento di beni culturali di Unibo e il contributo di “ADLab – AnalogicoDigitale”, laboratorio di digitalizzazione del Fipartimento di filologia classica e italianistica.

La pubblicazione dà dunque conto di due importanti novità. Il primo cambiamento riguarda la datazione, che si sposta in avanti di quasi 50 anni, dal 1180 circa – la tesi elaborata dallo Stussi – al 1226, lasciando comunque al componimento ravennate il primato di più antico, anticipando la “Rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo, esponente della Scuola siciliana, composta presumibilmente tra il 1231 e il 1250. La circostanza legata alla corte all’imperatore Federico II risolve poi anche il rebus linguistico che aveva fatto supporre l’esistenza di un filone lirico “settentrionale” precedente o coevo a quella siciliano. “I tratti settentrionali – spiega Roberta Cella – sono imputabili allo scrivente, ma la struttura sillabica è di solido impianto centro-meridionale. Sotto la patina romagnola, il vocalismo, specie se garantito dalla rima, è inequivocabilmente siciliano”.

Proprio alla luce dell’episodio storico legato a Federico II, la rilettura del documento da parte di Cella e Mastruzzo tocca infine il significato del testo. Che da lirica di ambito cortese assume una connotazione squisitamente politica, legata alle vicende imperiali e alla contesa con i Comuni della cosiddetta “seconda” Lega lombarda, che vide tra i suoi momenti più importanti la vittoria schiacciante di Federico II a Cortenuova (1237) e la cattura del Carroccio, dapprima portato trionfalmente a Cremona e poi inviato a Roma al Pontefice come eloquente ostentazione della potenza imperiale.

1 Alfredo Stussi, Versi d’amore in volgare tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII, “Cultura neolatina” LIX, 1-2 (1999), pp. 1-69.

©STORIE & ARCHEOSTORIE. RIPRODUZIONE RISERVATA.

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