
[E.P.] Nell’agosto del 79 d.C., la data è stata fissata da una lunga tradizione storiografica, il Vesuvio eruttò cancellando dalla storia Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Tra le vittime illustri del tragico evento ci fu anche Plinio il Vecchio, celebre scrittore e naturalista che lasciò ai posteri 35 libri della “Naturalis Historia”, una vera e propria enciclopedia del sapere scientifico del tempo. Pochi sanno che prima di esalare l’ultimo respiro, lo scrittore di origine comasca – era nato a Comum intorno al 23 d.C. e aveva fatto carriera e fortuna a Roma – cercò con ogni mezzo di aiutare i pompeiani a fuggire dalla città colpita dall’eruzione, mettendo a disposizione la flotta militare del Miseno, di cui era ammiraglio (praefectus), perdendo la vita egli stesso. I suoi resti furono ritrovati ai primi del ‘900: da allora il teschio giace, dimenticato da tutti, nel Museo Storico dell’Arte sanitaria di Roma, in una vecchia teca, identificato da un semplice cartoncino scritto a mano. Anche se la sciagurata questione è ben nota agli “addetti ai lavori”, oggi Andrea Cionci, firma de “La Stampa”, ha portato la vicenda all’attenzione del grande pubblico con un articolo pubblicato sul quotidiano torinese che annuncia: “Il nostro giornale ha appena proposto agli antropologi che hanno studiato l’Uomo del Similaun [il celeberrimo Oetzi, conservato al Museo Archeologico di Bolzano, ndr] di compiere l’esame definitivo sul reperto, ottenendo la loro piena disponibilità”. Per fornire la prova definitiva dell’identità dello scheletro, e grazie a uno sponsor, garantirgli così la visibilità e l’attenzione, anche mediatica, che merita.

UN RITROVAMENTO DA ROMANZO – La storia del ritrovamento è affascinante e degna di un romanzo. Ai primi del secolo scorso l’ingegnere napoletano Gennaro Matrone, mentre stava scavando alla foce del Sarno, ritrovò una settantina di scheletri sepolti da uno strato di lava solidificata: si trattava, con ogni evidenza, di un gruppo di fuggiaschi che, da Pompei, attendevano di imbarcarsi per fuggire. Non fecero in tempo e morirono intossicati dai vapori fuoriusciti dal vulcano. Uno di questi, isolato dagli altri, portava con sé vari gioielli d’oro: bracciali a forma di serpente, armille, una collana d’oro, anelli (uno con due teste di leone affrontate) e un gladio dall’elsa d’avorio ornata da conchiglie d’oro. “Matrone – scrive Cionci -, fin da subito, ventilò alle autorità che potesse trattarsi dello scheletro di Plinio, ma non fu preso sul serio e gli fu concessa libertà di disporre a suo piacimento dei gioielli rinvenuti. Purtroppo, data la mancanza di leggi di tutela, i reperti di maggior valore furono venduti da Matrone forse ai Rotschild, o ad altri ricchi collezionisti stranieri”. L’identificazione fu subito contestata dall’archeologo Giuseppe Cosenza, che considerava poco credibile che un ammiraglio romano potesse mostrarsi addobbato come “una ballerina da avanspettacolo”. Studi successivi hanno invece dimostrato che gli ornamenti indossati dallo scheletro erano tipiche onorificenze e cariche militari, soprattutto marittime, in uso fin dall’epoca di Augusto. “Ciò che appare molto verosimile – spiega Cionci – è che Plinio, prima di intervenire in soccorso della popolazione, avesse indossato le insegne della sua autorità per meglio gestire l’operazione, per infondere fiducia nei cittadini e farsi meglio obbedire dai suoi uomini, forse anche essere più riconoscibile nella cinerea oscurità che avvolgeva le spiagge durante l’eruzione”. Matrone donò il teschio al Generale Mariano Borgatti che lo portò al Museo dell’Arte Sanitaria di Roma. E da allora lì è rimasto, avvolto da un oblio durato un secolo.

SPONSOR CERCASI – Cionci, spiega nell’articolo, ha portato la vicenda all’attenzione di Isolina Marota, antropologa dell’Università di Camerino, “che per anni ha seguito, insieme al compianto prof. Franco Rollo, gli studi sull’Uomo del Similaun, la mummia di 5000 anni fa ritrovata in Val Senales”. Gli esami per l’identificazione definitiva dovrebbero costare poche migliaia di euro (circa 10.000): il problema è però sempre il solito, ossia la mancanza di fondi dell’università pubblica. Serve dunque uno sponsor. E se Oetzi, sottoposto a innumerevoli studi, è diventato una star, perché non potrebbe diventarlo un eroe che, quasi Duemila anni fa, ha sacrificato la sua vita nel tentativo di mettere in salvo quella di tanti altri?
L’intero articolo pubblicato da La Stampa, si può leggere qui.